San Suu Kyi

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Aung San Suu Kyi

Leader un po’ per caso, un po’ per vocazione, un po’ per carisma.
di Piergiorgio Pescali

Aung San Suu Kyi, la combattiva donna birmana balzata alle cronache mondiali nel 1989 a 44 anni di età, fino ad allora era una tranquilla madre di due bambini e moglie di un inglese, Michael Aris, professore di tibetologia all’Università di Oxford, città dove si era trasferita.
Il suo nome era pressoché sconosciuto alla maggioranza del mondo: di lei si sapeva solo che era figlia di Aung San, colui che preparò l’indipendenza della Birmania. Suu Kyi, suo padre non l’aveva praticamente conosciuto: morì assassinato nel 1947, quando lei aveva due anni di età, un anno prima che la Union Jack venisse definitivamente ammainata da quel suolo tanto bello quanto assetato di sangue. In famiglia l’anima e gli ideali di Aung San sono sempre stati colonne portanti per la crescita morale dei figli. La moglie dell’eroe nazionale, la madre di Suu Kyi, Ma Khin Kyi, ex infermiera al Rangoon General Hospital dove, nel 1942, conobbe il già famoso nazionalista che sposò il 6 settembre di quello stesso anno, non smise mai di mettere in pratica gli insegnamenti del marito.
Ma Aung San Suu Kyi, sposando uno straniero e andando a vivere in Inghilterra, Paese colonizzatore della Birmania e contro cui lo stesso Aung San si era battuto, fece la scelta di estraniarsi dalla politica attiva. Fino al 1988 la sua più grande ambizione fu quella di creare una serie di biblioteche nel suo Paese natale, anche se fece promettere al marito che, nel caso il popolo avesse avuto bisogno di lei, la famiglia non avrebbe dovuto trasformarsi in un ostacolo. Forse sentiva, in quanto figlia del padre della Birmania, di avere il dovere e, in un certo senso, anche il diritto, di ereditare e tramandare la memoria del genitore, ma non sapeva come proporsi ai birmani. I suoi affetti erano riposti nel cuore di persone separate da migliaia di chilometri di distanza, e permeati da culture, lingue, stili di vita troppo spesso in antitesi tra loro. Inoltre, lo stesso popolo a cui sentiva di appartenere, non la cercava. Sentiva di avere la stoffa del leader per vocazione, ma non riusciva a trovare il modo, l’appiglio che potesse presentarla davanti ai suoi connazionali come possibile erede delle idee paterne.
Poi, improvvisamente, una sera di marzo del 1988, mentre nella tranquilla casa di Oxford stava leggendo un libro assieme al marito, squillò il telefono. Corse svelta ad alzare la cornetta per paura che i trilli svegliassero i due bambini già addormentati. Quando abbassò il ricevitore, il destino era segnato: sua madre aveva avuto un collasso e Suu Kyi doveva rientrare a Rangoon per assisterla.
Nessuno, per la verità, fece caso a lei quando scese la scaletta dell’aereo il successivo agosto. I giornali internazionali non dedicarono una riga al rientro in patria della sconosciuta figlia di Aung San. Lo stesso Slorc (Consiglio di Stato per il Ripristino della Legge e dell’Ordine), che pochi mesi prima aveva ereditato il potere dal generale Ne Win con un fittizio colpo di stato, non diede peso all’esile figura di quella donna stata troppo tempo lontano da casa. Fu il primo di una lunga serie di errori di strategia politica della poco lungimirante giunta militare.
Ancor prima che la madre morisse, nell’ottobre 1988, la Suu Kyi aveva conquistato il cuore non solo dell’opposizione, ma dei birmani tutti, come testimoniò quell’82% dei voti conquistati nelle elezioni del 27 maggio 1990. Leader per carisma, proprio come suo padre. Per ironia della sorte (per modo di dire perché nel mondo politico e diplomatico nulla avviene per caso), il 19 luglio 1989, anniversario della morte del padre, Suu Kyi lancia il suo anatema: lo SLORC è controllato dall’onnipresente generale Ne Win, il quale, anche se ufficialmente in pensione, ha saldamente tra le mani le redini del potere nel Paese. Ma aggiunge qualcosa d’altro che scatena l’irritazione dei militari: la promessa del governo di trasferire il potere ai civili, rimarrà tale; una promessa. Per la verità, ciò che quel giorno disse Aung San Suu Kyi non rappresentava niente di nuovo: la grossa novità era che nessuno, prima di lei, aveva avuto il coraggio di denunciarlo apertamente.
Il giorno dopo, 20 luglio 1989, la Suu Kyi viene posta agli arresti domiciliari. Questa data segna una tappa fondamentale: la fama della donna travalica i confini birmani e la sconosciuta figlia di Aung San si trasforma in Aung San Suu Kyi. Non sarà un fuoco di paglia. La Lega Nazionale per la Democrazia, fondata appena due anni prima, riesce a vincere le elezioni del 27 maggio 1990 conquistando 392 dei 485 seggi del Parlamento birmano. La sorpresa dei risultati prende in contropiede lo Slorc, che nel tentativo di rimediare alle incredibili sviste, ne inanella di nuove ancora più madornali: annulla le votazioni col risultato di attirare l’attenzione e la riprovazione di tutto il mondo, che scopre finalmente l’esistenza di una nazione chiamata Birmania. L’anno seguente alla Suu Kyi viene assegnato il Nobel per la Pace con la sponsorizzazione degli Stati Uniti, in prima linea nel condannare il regime birmano, secondo loro troppo legato alla Cina Popolare. Da allora i rapporti tra la leader dell’opposizione birmana e i generali dello Slorc, si fanno sempre più tesi alternando alti e bassi.
Nel 1996, anno in cui riesco ad intervistarla, pur essendole stati revocati gli arresti domiciliari, non può muoversi da Rangoon, ribattezzata Yangon, se non con difficoltà. Durante la conversazione, durata quasi due ore, noto quanto la Suu Kyi misuri le parole. Non si lancia a spada tratta contro la giunta, anzi afferma che la “Lega Nazionale per la Democrazia è pronta a collaborare con i generali per un governo di coalizione nazionale”. Non lasciamoci ingannare: Aung San Suu Kyi con queste parole dimostra di essere un’astuta politicante. Sa che non potrebbe governare il Myanmar (che lei continua a chiamare Birmania) senza l’appoggio dell’esercito. La sua tattica è quella adottata da sempre dai grandi leader asiatici e dedotta dall’Arte della Guerra di Sun Tzu: allo scontro frontale preferisce giocare sul piano psicologico e tattico, dove la Suu Kyi non conosce rivali. Considera l’esercito parte di se stessa, della famiglia in quanto struttura creata dal padre: “Ho grandi simpatie per i militari. Li associo alla figura di mio padre e non riesco a provare alcun risentimento contro di essi. Sono solo delle pedine manovrate dallo Slorc.” Chissà, però, cosa ne pensano i birmani di queste parole. I militari, anche quelli senza stellette, non si sono certo tirati indietro nel 1988, quando nelle strade di Rangoon hanno ucciso migliaia di manifestanti. E sono sempre i militari che ancora oggi, nel momento esatto in cui state leggendo queste righe, soggiogano le popolazioni tribali al nord, le quali, del resto, non credono che una Aung San Suu Kyi avrebbe l’autorità e la capacità di mutare la situazione: “Dopotutto anche lei è una barman, una birmana” mi ha detto un leader Karenni scuotendo la testa.
Oggi la Suu Kyi è venerata perché è un simbolo: rappresenta la continuità storica della nazione, la voglia di democrazia del popolo, il progresso, una Birmania inserita saldamente nel puzzle della comunità internazionale. Ma cosa accadrà nel momento in cui da simbolo si incarnerà in donna di potere? (Perché, da sola o assieme ai suoi attuali persecutori, la Suu Kyi un giorno governerà il Myanmar). In Indonesia, tanto per tracciare l’esempio più attinente, Megawati Sukarnoputri, anche lei figlia dell’eroe nazionale, dopo essere salita al potere, non sta dimostrandosi all’altezza della fama che aveva quando era figura di punta dell’opposizione a Suharto. Aung San Suu Kyi, certamente donna più intelligente, integerrima e internazionalmente più rispettata, sarà pure lei chiamata a fare delle scelte. E le scelte, si sa, qualunque esse siano, portano a crearsi dei nemici. Il problema tribale, ad esempio, è un nodo apparentemente inestricabile. L’autonomia che molti stati dell’Unione auspicano, e che la stessa leader dell’opposizione è disposta a concedere, si avvicina più all’indipendenza che al federalismo offerto da Yangon. Occorrerà ancora far uso dell’esercito per debellare i movimenti di guerriglia ed evitare la balcanizzazione della nazione. Nel frattempo i militari continueranno a trafficare droga, a meno che la Suu Kyi riesca a sostituire questa lucrosa fonte di introito, con una altrettanto redditizia. Ma quale? La nazione è praticamente un’immensa cassaforte di cui solo l’esercito conosce la combinazione. E non sarà facile convincere i generali a dividere tale ricchezza con gli altri 50 milioni di birmani. Di tali ostacoli Aung San Suu Kyi è al corrente, ma pensa che possano essere superati con una sostanziosa dose di democrazia: “Ciò che la gente della Birmania vuole oggi è democrazia; una volta raggiunta avremo tutti i mezzi per risolvere le questioni che affliggono il Paese”. Idealista? Forse, ma senza ideali non è possibile raggiungere alcuna meta e l’uomo stesso ha bisogno di teorie per continuare a far girare la ruota della storia.
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