Questo Paese senza bussola

Fonte : L’UNITA’ del 23/8/2010 di Rinaldo Gianola
L’Italia rientra a casa dopo le ferie e si trova davanti i soliti guai. L’economia non va. I prezzi salgono. I precari della scuola fanno lo sciopero della fame. Anche il campionato di calcio rischia di partire con proteste e scioperi. Meno male che negli ultimi giorni vibra alta la campagna moralizzatrice di Repubblica contro la Mondadori: vedremo Augias o Saviano lasciare Segrate perchè dopo vent’anni si sono accorti di che pasta
è fatto Berlusconi? Tenetevi forte, il mondo della cultura s’inquieta e si interrogherà alle sagre della letteratura e del libro opportunamente organizzate per settembre. L’unica vera novità di questo paese senza
bussola è che Sergio Marchionne assomiglia sempre più a Silvio Berlusconi. Anche l’amministratore delegato della Fiat alla pari del presidente del Consiglio desidera, infatti, che le sentenze della magistratura non intralcino la sua azione manageriale, la sua politica di gestione e controllo delle fabbriche in cui la piena applicazione della miracolosa formula World Class Manifacturing dovrebbe risolvere non solo i problemi di
produzione e di efficienza, ma raccogliere il totale, acritico consenso dei lavoratori, dei sindacati, delle comunità in cui operano questi stabilimenti. Marchionne, che si considera un missionario del profitto destinato a segnare un’epoca – “prima e dopo Cristo” nell’industria dell’auto e nelle relazioni industriali, non può tollerare che un giudice possa ritenere ingiusto il licenziamento degli operai Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, e anzi imponga il reintegro in fabbrica accusando addirittura la Fiat di «comportamento antisindacale». Marchionne non può comprendere questa battaglia di principi, non può condividere proprio come Berlusconi l’affermazione del diritto e della giustizia, la contrapposizione di altri interessi rispetto ai suoi, rispetto a quelli dell’Azienda. Come è possibile che la modernità industrialista di un Marchionne possa essere
intralciata da un giudice di provincia, contestata da qualche operaio incazzato ancora pronto a giocare il proprio futuro per difendere un briciolo di dignità? Marchionne vuole fabbriche dove i lavoratori stanno
con la testa piegata, senza parola, dove lui decide a che ora gli operai possono mangiare, andare al bagno, fare lo straordinario, portare i figli a scuola e far la spesa con la moglie. Questo è il disegno vero emerso
dopo la roboante presentazione di Fabbrica Italia lo scorso aprile, in cui Marchionne prometteva investimenti e produzioni in cambio di un radicale mutamento culturale del mondo del lavoro che, in sintesi, si configura come la totale subalternità dei dipendenti, dei sindacati, anche della politica all’impresa. Ma il legame ormai evidente che esiste tra Marchionne e Berlusconi si manifesta nei fatti, nelle azioni, nell’esercizio del potere,
delle minacce, delle menzogne e dei ricatti. Irritato dalla sentenza di primo grado che reintegra i tre operai (di cui due delegati della Fiom) nello stabilimento della piana di Melfi, non soddisfatto del legittimo ricorso
presentato e nemmeno della distanza che i sindacati “buoni” come CISL e UIL ( che prezzi bisogna pagare per stare al tavolo con Sacconi) hanno mantenuto da questa vicenda evitando persino di esprimere solidarietà con i lavoatori colpiti, il capo del Lingotto ha voluto portare l’estremo affronto, ha voluto offendere i tre operai: “Vi pago ma non vi voglio in fabbrica”.L’arriganza di chi ritiene di essere il più forte – ma forse è solo una grande debolezza – superiore alle leggi e regole, convinto di rappresentare interessi prevalenti rispetto a quelli di chi deve consumare la vita in fabbrica per guadagrarsi il pane, si esprime chiaramente con questa posizione di Marchionne e , se allarghiamo leggermente lo sguardo, si abbina con i trucchi di Berlusconi che, nella verifica della sua malmessa maggiroanza, cerca di ritrovare il sostegno per le sue porcate, per evitare i processi milanesi, per non pagare il risarcimento del lodo Mondadori. Tutto si tiene in quest’Italia: le minacce di Marchionne ai lavoratori che non abbassano la testa e gli affari provati di Berlusconi che diventano programma di governo. Oggi i tre operai licenziati si presenteranno ai cancelli di Melfi per tornare al lavoro. Non potranno entrare perchè così ha deciso Marchionne. Le forze dell’ordine prenderanno atto di questi fatti. Ma non finisce così, in attesa del secondo processo di ottobre. Dovrebbe oggi essere chiaro a tutti. soprattutto all’opposizione e all’intero movimento sindacale, che i comportamenti della FIAT sono una minaccia che rischia di innescare tensioni e scontri nelle fabbriche, che può destabilizzare un tessuto sociale già provato duramente da tre anni di crisi. Mentre ancora non si è dissolta la cortina fumogena sui reali investimenti, modelli, fabbriche, Marchionne usa la linea dura perchè come scrive il Corriere della Sera vuole evitare che la “presenza dei tre operai possa configurare un ulteriore danno al regolare svolgimento del lavoro, poichè gli stessi avrebbero dato vita a comizi di propaganda…” il gioco di Marchionne è ambiguo e pericoloso. Ha iniziato con promesse, brindisi e cotillon, poi è passato a Pomigliano imponendo il suo diktat che tuttavia non ha ottenuto, come spesso succede anche a Berlusconi, il plebiscito auspicato. Allora ha cambiato le carte in tavola lanciando la “newco” per Pomigliano ed ha spostato in Serbia una produzione destinata a Mirafiori tento per far capire che aria tira. Tutto condito da licenziamenti punitivi e ingiustificati. Davanti alla strategia della FIAT e del comportamento di Marchionne i giudizi del PD sono stati finora diversi e spesso molto distanti fra loro. Il concerto a più voci è bello, sintomo di grande democrazia, ma alla fine qualcuno deve fare le sintesi e spiegare chiaramente da che parte si sta. Se domani inizia la campagna elettorale, siamo d’accordo che andiamo a Melfi a solidarizzare con i tre operai licenziati da Marchionne? Oppure no?

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