Quello che volevo scrivere

Stavo preparando un post sulle mie considerazioni relative a questo 2020 quando un’amica mi ha girato l’articolo su Avvenire di Giorgio Paulucci che esprime molto bene quello che volevo scrivere, ve lo riporto ma potete anche andarlo a leggere direttamente sul sito.

«Questo è un anno da dimenticare». Qualcuno lo ha già detto e scritto, e non è difficile prevedere che saranno in tanti a dirlo e a scriverlo in questi ultimi scampoli del 2020. E impressiona leggerlo nei whatsapp ricevuti in questi giorni da amici e conoscenti, pronti a voltare pagina per lasciarsi alle spalle un passato da dimenticare e votati alla speranza in un futuro che sarà certamente migliore, «perché peggio di così non potrà andare»… In questo desiderio di archiviare frettolosamente un passato che brucia, si cela la fragilità con cui affrontiamo il presente, l’illusione che il mondo abbia comunque davanti a sé le «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria.

E invece no. Questo 2020 non è un anno da dimenticare, ma da ricordare. Siamo andati a lezione di vita, una lezione più che mai “in presenza” anche quando avveniva a distanza, perché entrava nelle nostre carni, ci costringeva a guardare ciò che non avremmo voluto guardare. Abbiamo imparato molto. Anche duramente, anche sulla nostra pelle o su quella dei nostri cari.

Il coronavirus con la sua forza ha dimostrato la nostra fragilità, ha smantellato certezze dalle fondamenta deboli, ha ridimensionato i deliri di onnipotenza che più o meno consapevolmente avevamo coltivato, ci ha costretto a capire che non siamo padroni della nostra esistenza anche se tutti i giorni ci illudiamo del contrario.

Ora siamo più consapevoli che davvero nessuno si salva da solo – come continua a ripetere papa Francesco –, che l’uomo è una relazione, è fatto per stare con «l’altro», e che salvarsi da soli non è solo ingiusto, è soprattutto impossibile. Ci serve altro, ci serve ‘l’Altro’, che ci raggiunge con un volto umano, come il Natale è tornato a ricordarci in una stagione così drammatica.

Un’amica mi ha scritto: «Appena guarisco devo raccontarti quanto bene ho ricevuto nei giorni passati in ospedale, con il respiro affannato e la paura di non farcela, e gli occhi dei medici e degli infermieri che scrutavano i miei e mi infondevano anche solo un soffio di serenità, quanto bastava per aiutarmi a tenere duro, a lottare, a fidarmi e ad affidarmi a loro». Quanto bene è passato davanti agli occhi, quest’anno, anche quando gli occhi si sono chiusi per sempre. Un bene che documenta un Amore che si china sulle nostre ferite, non si fa fermare da nessuna forma di distanziamento, abbraccia la nostra debolezza, riaccende la fiamma della speranza che rischia di spegnersi.

Non archiviamolo così in fretta, questo 2020. Non mettiamogli sopra l’etichetta di annus horribilis lasciandoci cullare dall’illusione che d’ora un poi «andrà tutto bene». Ma è vero che da ogni difficoltà nasce una nuova possibilità. Ripartiamo dall’evidenza di una fragilità che, piaccia o non piaccia, è parte integrante della nostra umanità. E teniamo aperti gli occhi e il cuore per cogliere i segni di luce che possono illuminare il buio e indicare un sentiero su cui provare a incamminarci. Facciamo nostre le parole del cantautore americano Leonard Cohen: «Suonate le campane, che ancora possono suonare. Dimentica la tua offerta perfetta. C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce».

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