Di Giuseppe Scalella OSA
Quante cose nella vita si capiscono vivendole; anzi si può ben dire che si capiscono solo così. Chi ha un bel ricordo dei propri nonni lo sa: ce li faceva amare proprio la ricchezza che avevano acquisito soffrendo e vivendo.
Gesù capsce che anche i suoi amici, per capire, avevano bisogno di vedere, d vivere. Per questo un giorno con tre di loro decide di andare sul Tabor. E che fa? Si trasfigura. Ma a che scopo? Che cosa dovevano capire? Una cosa immensa: il loro destino, cioè essere riportati all’innocenza originaria, per poter, insieme a Dio, godere appieno la vita.
Dovevano essere guariti dal peccato originale, cioè da quella paralisi mortale che impedisce di essere felici, davvero felici.
E l’hanno capito? Uno dei tre, Pietro, l’ha intuito ma come dire gli altri due, non l’ha capito. Lo capirà più tardi, come tutte le cose della vita: si capiscono sempre tardi.
Intanto hanno visto, come anche noi vediamo. Poi verrà il momento in cui si capirà: ma non dipende da noi: ci verrà dato.
Quanti di noi sanno che il giorno del nostro Battesimo siamo stati messi dentro la vita di Dio? Ed è avvenuto davvero, e siamo stati guariti da quella paralisi che ci porta solo alla morte. Eppure continuiamo a non essere felici. Come mai?
Quello che Dio fa in noi non avviene mai in modo automatico: c’è bisogno di noi, del nostro “sì”, della nostra libertà.
Proprio come diceva il grande Agostino: “chi ti ha fatto senza di te, non ti salva senza di te”.