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La mafia in Brianza – di Davide Milosa

Articolo pubblicato su “il Manifesto” del 3 maggio 2009.
A Cerro Maggiore, nella ricca provincia milanese, un negoziante in difficoltà accetta un prestito che presto si trasforma in un incubo. Con tanto di sequestro di persona e minacce di morte. Per lui e famiglia. Il mandante è il boss dell’ndrangheta, Ciccio Sergi. Che dal carcere gestisce un fiorente traffico di droga e riciclaggio di denaro. Controllando il territorio del «profondo nord» lombardo
Quando lo hanno sequestrato ha pensato che lo avrebbero ucciso. Invece, è stato legato, minacciato con la pistola e poi, in dialetto calabrese, qualcuno ha ringhiato che si trattava di un avvertimento. Era il 27 febbraio 2009.
Guido Gallo Stampino, 70 anni, trattiene a stento le lacrime. Racconta la sua storia di vittima della ‘Ndrangheta: all’inizio, quando per disperazione ne accettò l’aiuto, dopo, quando fece arrestare boss e picciotti, e ora, che continua a subire intimidazioni. Un ricordo ne aggancia subito un altro, lui trova le parole, poi gli sfuggono, di nuovo le riacchiappa, digerisce la paura tenendo in bocca una pipa, ma lo vedi che il suo sguardo punta altrove: verso una macchina che passa o una persona che attende. Non si sa mai, la mafia ha mille volti, chiunque potrebbe essere il suo boia. Dice: «Non dormo da dieci anni». Poi precisa: «Io ho una fiducia sconfinata nelle autorità».
La sua è una vicenda infinita, impastata di terrore e coraggio, quello di denunciare i mafiosi, di vederli condannati e di continuare a resistere in prima linea, ancora oggi, dopo quel sequestro, da dietro la scrivania dell’associazione nazionale antiracket e usura Sos Italia Libera (Numero verde: 800667733), di cui è vicepresidente. «Denunciare – dice – è l’unica cosa da fare, non c’è altra strada».
Stampino è di Cerro Maggiore, paesone affondato in una Brianza ricca e un po’ crudele, molto silenziosa, troppo distratta, quasi omertosa. Un territorio fertilissimo per le cosche della ‘Ndrangheta che trafficano droga e riciclano denaro. Qui gli affari sono affari anche quando puzzano tremendamente di mafia. Lo sanno bene certi direttori di banca.
L’appuntamento con Guido è fissato per le nove davanti al suo negozio di abbigliamento nel comune di Cantalupo a due passi da Cerro. E’ una mattina tiepida e un po’ sonnacchiosa. Lungo la strada principale c’è la chiesa, l’ex sede del Pci e due bar che lentamente si animano di operai e anziani. Tutto appare nella norma, senza sussulti, regolare. Stampino indossa un blazer blu, ha il volto asciutto, mentre gli zigomi incurvati resitituiscono un’espressione di perenne timore. Il suo fisico è lo specchio di una vita piegata dalla mafia. «Sono arrivato a pesare fino a 49 chili – dice mentre entriamo in negozio -, non mi riconoscevo più». C’è questo nel suo passato, ma anche due infarti, la voglia di farla finita e una famiglia che non vede un futuro, perché il futuro glielo ha rubato la ‘Ndrangheta, ma anche uno Stato, che preferisce pagare la scorta alla moglie di qualche ministro, piuttosto che difendere un eroe del nostro tempo.
Guido, un «eroe» lo è diventato dopo che per una notte intera, abbracciato nel letto con la moglie Lina, ha pianto tutte le sue lacrime e alla mattina ha deciso di denunciare i propri aguzzini. Perché la sua è una storia che sì parte dall’usura, ma termina fra le braccia di Francesco Sergi, alias Ciccio, capo sanguinario della ‘Ndrangheta di Platì, oggi all’ergastolo per omicidio e associazione mafiosa, ma all’epoca burattinaio degli interessi calabresi nel Milanese. Così, grazie alla denuncia di Stampino, nelle carte della Procura di Milano ci finisce il boss assieme ai fratelli Zavattieri, cognati mafiosi di don Ciccio. I tre ci rimangono dal primo grado fino all’Appello che riduce ma conferma le condanne per estorsione.
Eppure quanta fatica per arrivare fino a quella sentenza e quanto coraggio per sedersi nell’aula bunker di Milano e guardare in faccia il boss. «Non scorderò mai quello che mi disse – ricorda il signor Stampino -, una frase che Sergi ripetè per ben due volte». Parole che restano lì, piantate nella mente. Disse il boss: «La mia vita adesso è qua, ma la tua è fuori e tu quei soldi me li devi ridare».
«Verso la fine degli anni Ottanta – racconta – il mio negozio di Cerro subì furti per 350 milioni di lire, non ero assicurato e avevo comprato casa, mi trovavo in difficoltà finanziarie». Le banche gli danno una mano fino a un certo punto, dopodiché chiedono di rientrare dal debito. Qualcuno in paese lo viene a sapere. «Un bel giorno si presenta un tizio in negozio, uno che non avevo mai visto. Dice: ‘So che sei in difficoltà, se vuoi una mano’». La cosa inizia così. «Dopodiché l’usuraio mi ha fatto firmare un assegno da dieci milioni, in cambio me ne ha dati sette in contanti». La situazione di Stampino, però, è già compromessa e lui non è in grado di coprire quel primo prestito. «Così, quello è tornato e mi ha fatto firmare un altro assegno, e poi un altro e un altro ancora». Fino a che il debito sfonda il tetto degli ottocento milioni. Intanto, al primo usuraio se ne affiancono altri tre. Lui fa una prima denuncia, ma la lentezza della giustizia manda tutto in prescrzione. «Oggi quei quattro sono tutti liberi».
Poi la chiacchierata con il boss. «Francesco Sergi veniva spesso nel mio negozio. Un giorno mi confida che sa delle mie difficoltà e se voglio una mano, lui è disponibile». E’ il 1993. Guido Gallo accetta. «Sergi mi diede 100 milioni, il resto lo presi dai fratelli Zavattieri». I tre sono cognati, perché una Zavattieri ha sposato Ciccio Sergi. «Per quattro anni – confida la signora Lina – abbiamo dovuto pagare sei milioni al mese, solo d’interessi». A ritirare ci pensava l’amante del boss. «Veniva sempre con dei macchinoni, due volte, il 20 e il 30 di ogni mese, ritirava i soldi in contanti e si prendeva i vestiti, lo faceva quasi senza pensarci, come fosse la cosa più normale del mondo». Piange la signora Lina perché in questi casi la paura e l’umiliazione sono due facce della stessa medaglia. «Mi dicevano ‘Tuo marito non ha i coglioni, noi vogliamo i piccioli’». Prosegue Guido: «Venivano sotto casa in dieci, urlavano che con pochi soldi avrebbero pagato un paio di albanesi per farci fuori, ci sputavano in faccia, più volte hanno picchiato mia moglie».
Una volta in negozio arrivano in più di dieci, tutta la colonia mafiosa dei Sergi che oggi vive a Buccinasco. «Alcuni stavano sulla porta, altri prendevano i vestiti». A volte, poi, quando Stampino i soldi non li ha, si sente dire: «Male, molto male, don Ciccio ne sarà molto dispiaciuto». Parole che sembrano prese dalla sceneggiatura del Padrino ma che invece sono il metronomo di una realtà che oggi a Milano esiste e dilaga.
«Per non parlare dei direttori di banca!», dice Guido, riacchiappando un ricordo. Capita alla banca Ambroveneta di Legnano. «Lo urlai: voi siete la banca della mafia, ma quelli dissero che loro non c’entravano». Cos’era capitato? «Come garanzia del prestito – dice Stampino – gli Zavattieri un bel giorno mi portarono in quella banca per firmare degli assegni». Lui ne firma otto per un totale di 810 milioni. E non lo fa in una stanzetta riservata, ma sul banco davanti al direttore di filiale. Lo stesso che poche settimane dopo chiama e dice: «Signor Stampino ci sono due assegni da 250 milioni all’incasso». Non era vero. «Si trattava di una minaccia – prosegue – perché alla fine quando la ‘Ndrangheta mi portò via il negozio, mi restitutì i miei assegni intatti. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto quel direttore».
E oggi? Sembra ieri. É vero, Sergi è in carcere, ma gli Zavattieri no. Scontata la pena, ora vivono in una bella villetta a San Vittore Olona, a due passi dal Circolo dei reduci dove nel settembre dello scorso anno fu ucciso il boss Carmelo Novella. Altre storie? Forse, oppure no, i carabinieri di Monza indagano. Di certo c’é che i boss in carcere comandano ancora. Di certo c’è che Guido Gallo Stampino, nonostante i processi siano finiti, resta ancora nel mirino delle cosche. L’episodio del sequestro è lì a testimoniarlo.
Sul luogo ci andiamo in macchina. Facciamo lo stesso percorso. Poi rallentiamo. «Qui ho visto l’auto che mi seguiva, aveva la luce della polizia, ho pensato: sono i miei amici, mi sono fermato, ho tirato giù il finestrino…». Un tizio ha puntato la pistola, un altro è salito e lo ha portato in una stradina di campagna. «Ho pensato: è finita». Invece, i tre lo hanno legato e se ne sono andati. Mentre parliamo si ferma una macchina. Sono i carabinieri. Ci hanno seguiti. O meglio hanno seguito Guido. «Loro sono i miei angeli custodi – dice – e non finirò mai di ringraziarli».
Ma chi sono i sequestratori? Di nuovo i carabinieri indagano. Forse già sanno. Forse sono gli stessi che nel 2003 davanti al negozio che Guido aveva aperto a Busto Arsizio lasciarono un sacco dell’immondizia con dentro una testa di maiale e una bomba. Forse sono gli stessi che nel 2005 gli mandarono proiettili in busta con la scritta: «La devi pagare di quanto hai fatto ma a pagarne le pene saranno i tuoi figli dopo tocca a te». O ancora sono quelli che gli mettono le bombe nell’auto e lo avvertono con una telefonata anonima, che gli bruciano la macchina o gli svaligiano il negozio due, tre volte l’anno.
«Non sappiamo più che fare – dice la signora Lina – non è per noi, quelli possono entrare in negozio e spararmi, non mi frega, è per i miei figli». E gli affari? «In negozio non entra più nessuno», dice Guido. E i soldi? «Il governo mi ha prestato 240mila euro». Già, perché in tutto questo Stampino si trova oggi a dover restituire il denaro che gli è stato dato come vittima dell’usura. «Sì – precisa lui, incrollabile amante delle Istituzioni – ma a tasso zero».

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