Processi e affari dietro l'attacco delle cosche

Ci sono volti sfuggenti, frasi dette a mezza bocca, parole masticate via di fretta. C’è un’aria pesante a Reggio Calabria. Perché dietro la bomba al palazzo della Procura generale di via Cimino si agita qualcosa che ancora si fatica a mettere a fuoco ma che ha il sapore inequivocabile di un attacco allo Stato. Attacco deciso, voluto da una ‘ndrangheta sempre più potente e spregiudicata. Perché dietro a quell’ordigno artigianale e a quei muri anneriti c’è buona parte degli affari mafiosi in Calabria, i cui interpreti sono oggi alla sbarra. Imputati in processi d’Appello al cui esito sono appese le sorti dei più potenti clan del reggino. Sembra questo, insieme al sequestro dei beni della ‘ndrangheta, il rivolo investigativo più seguito per dare senso all’attentato del 3 gennaio. Una data che è già storia nerissima per una regione che oggi conta quasi 5.000 affiliati alle cosche.
I processi, dunque, che secondo i boss si devono aggiustare, ma che quasi certamente porteranno a condanne definitive. Come quello sull’omicidio del vice presidente del Consiglio regionale Francesco Fortugno ucciso a Locri il 16 ottobre 2005. Un fatto clamoroso che alcuni investigatori legano a quello di due giorni fa per tratteggiare il profilo di una ‘ndrangheta che ha ormai alzato il livello dello scontro. Il 2 febbraio scorso il primo grado ha condannato all’ergastolo mandanti materiali e killer. La conclusione dell’Appello è attesa per la fine di quest’anno. A breve, poi, inizierà il processo per la strage di Duisburg (15 agosto 2007) con 40 persone alla sbarra. Lo stesso dicasi per i clan della piana di Gioia Tauro, ovvero i Molè e i Piromalli, coinvolti nell’operazione «Cent’anni di storia». A febbraio partirà l’Appello alla cosca Morabito accusata di aver monopolizzato i lavori della Statale ionica. Dopodiché a partire dalla prossima settimana è atteso l’esito dell’Appello sulla confisca di beni per 50 milioni di euro, sequestrati all’imprenditore Alfredo Lionetti, prestanome, secondo l’accusa, del superboss del quartiere Archi, Pasquale Condello, detto il «supremo», arrestato il 18 febbraio 2008 dopo 18 anni di latitanza. Proprio le ricchezze dei boss segnano una seconda pista investigativa. Al di là della galera, che in fondo resta un inciampo di percorso, per la ‘ndrangheta ciò che conta al di sopra di tutto è il denaro. E molto probabilmente quei 650 milioni di euro sequestrati nell’ultimo anno non sono andati giù a qualche boss.
Ma la domanda ora è: chi? Chi ha potuto organizzare un attentato come quello di via Cimino? Un attentato, ricordano alcuni investigatori, portato a termine con modalità piuttosto rozze: uno scooter e una bombola del gas con dell’esplosivo come miccia. Roba usata durante le estorsioni. E anche l’idea, ventilata ieri dal procuratore generale Salvatore Di Landro di una decisione collegiale, sembra cozzare con chi di ‘ndrangheta si occupa ogni giorno per le strade di Reggio Calabria. Una città che dal punto di vista criminale è una sorta di suk confuso e dove gli equilibri sono fragilissimi. Ci sono, è vero, i clan storici come i De Stefano o i Condello, ma la città è anche una piazza d’affari per le cosche tirreniche, dai Piromalli ai Molè. Esiste sì un collegio senatoriale, come lo definiscono alcuni investigatori, ma resta entità fumosa e oggetto di una indagine ancora in corso. Difficile, quindi, pensare a una decisione presa in stile cupola di Cosa nostra. La sicilianizzazione della ‘ndrangheta è solo una banalizzazione del problema. Nei fatti, la mafia calabrese continua a mantenere un assetto orizzontale, in cui le alleanze si cementano attorno ai legami di sangue. Il resto sono cordate estemporanee che durano il tempo di un affare. In quest’ottica, dunque, può essere letta l’ipotesi di una decisione comune, legata però a obiettivi particolari, come un processo o il sequestro di beni.
L’attacco allo Stato resta così nel simbolo che la Procura generale rappresenta. E in fondo non è una novità: già nel 2008 le cosche tentarono di violare le stanze della magistratura piazzando una microspia negli uffici del pm Nicola Gratteri. Ma tutto questo sembra avere poco a che fare con la logica delle bombe voluta da Salvatore Riina. In questo momento, infatti, i referenti politici delle ‘ndrine, sostengono fonti investigative, starebbero mantenendo le promesse fate ai boss che, dunque, non avrebbero nessun interesse ad alzare il tono dello scontro con le istituzioni. Certo la bomba di via Cimino resta un fatto gravissimo che sembra poter precipitare Reggio Calabria negli anni bui della seconda guerra di mafia: 700 morti in sei anni. L’ultimo fu proprio un magistrato, il giudice Antonio Scopelliti, ucciso nel 1991 dalla ‘ndrangheta. Ma per fare un favore a Cosa nostra.

Fonte: Il Manifesto del 05/01/2010 di Davide Milosa

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