Fonte: Il Manifesto del 23/1/2010 di Davide Milosa
E’ una ragnatela fatta di attaccamento al territorio e sguardo globale, di vecchi metodi mafiosi e di nuova capacità di parlare con la politica. Il potere occulto della ‘ndrangheta è cresciuto così. Prossimi appuntamenti: l’Expò di Milano e le elezioni di primavera
Due uomini parlano in un bar. Non in Calabria, né in Italia ma a Montreal in Canada. Parlano d’affari. Di come spartirsi al meglio gli appalti per la costruzione della Liquichimica a Saline Jonica. In quel bar, il Reggio, il cui titolare, Paul Violi, è un boss originario di Sinopoli, i due si domandano come potranno contattare Natale Iamonte. Sì perché lui, il padrino di Melito Porto Salvo, è il referente della ‘ndrangheta per quella speculazione: 300 miliardi di lire per uno stabilimento costruito su un terreno franoso mai entrato in funzione. E’ il 1974. Anni dopo, si scoprirà che tutte quelle società «anonyme» con sede in Lichtenstein e titolari dei sub-appalti erano solo dei paraventi per le varie cosche del reggino. Conclusione: l’opera non nasce, i soldi però arrivano, mentre il vicino scalo portuale di Saline, inaugurato in tempi record, diventa la porta d’ingresso dell’eroina dalla Turchia. Ovviamente con la supervisione di Iamonte che si prende la tangente su ogni carico. Oggi il padrino di Melito Porto Salvo è in carcere. Per anni, gli ultimi da uomo libero, si è arricchito a Desio. Eccola qua la ‘ndrangheta che schiaccia la Calabria, ma poi fa affari in Lombardia e in tutto il mondo.
E proprio a Milano, ad esempio, ha vissuto un tipo come Antonio Piromalli, giovane figlio di Giuseppe, detto facciazza. Lui, rampollo di una potente famiglia mafiosa, ha abitato in viale Brianza 33 a due passi dalla sede milanese della Dia in un lussuoso appartamento, sposato con una giovane maestra, e in testa il progetto di prendersi il Porto di Gioia Tauro come già fece suo zio Girolamo Piromalli detto Mommo. Nato per affiancare il V Polo siderurgico che, strano a dirsi, non ha mai visto la luce, il porto di Gioia Tauro oggi è il più grande terminal del Mediterraneo per il trasporto di containers. Sui suoi moli, oltre a buona parte della cocaina che arriva dal Sudamerica, di containers ce ne passano circa due milioni l’anno. Ovvio che la società titolare dell’appalto per la logistica possa fare un bel po’ di soldi. Negli anni ’90 la gara va al gruppo Conttship Italia S.p.A. I Piromalli con gli allora alleati Molè pensano di chiedere un dollaro di pizzo su ogni container. «L’estorsione del secolo», la definiranno i magistrati. Nel 2006, la palla passa al giovane Antonio Piromalli. In quel momento il goloso appalto è nella mani della All Services una cooperativa che da tempo naviga in cattive acque. I Molè e i Piromalli mettono in piedi due cordate per acquistarne il pacchetto di maggioranza. Ci sarà battaglia e alla fine la storica alleanza tra i due clan della Piana si sbriciolerà. La partita d’affari viene vinta dal giovane erede. Non tutto, però, fila liscio. E così, mentre a Milano Antonio Piromalli con i buoni uffici dell’ex dc Aldo Miccichè contatta Marcello Dell’Utri «per quella cosa sul 41 bis»», a Gioia Tauro viene ucciso Rocco Molè. Il 26 aprile salta in aria con il suo Suv Antonino Princi, imprenditore legato ai Molè. Sul piatto ci sono «quei cento anni di storia che non si possono guastare» come dice il boss Girolamo Molè e che invece si guasteranno irrimediabilmente.
Dalla Calabria alla Lombardia, passando per vecchie speculazioni e nuovi presunti referenti politici. Anche questa è la ‘ndrangheta. Eppure Natale Iamonte, Giuseppe e Antonio Piromalli, Rocco Molè, sono semplicemente prospettive in una partitura mafiosa molto più ampia e che giorno dopo giorno stritola la Calabria. Qui paura e omertà si accompagnano al silenzio dei media e delle istituzioni. Risultato: da un parte si ha la mafia più ricca e più potente del mondo con un giro d’affari di 45 miliardi di euro l’anno, dall’altra una regione con il tasso di dissoccupazione giovanile più alto d’Europa. Numeri che fanno impressione se si pensa che la media europea dei disoccupati sotto ai 25 anni è del 17%, mentre in Calabria è del 65%. L’impunità, poi, è un sentimento che unisce tutte le cosche: da Reggio Calabria a Crotone a Isola Capo Rizzuto. Ecco spiegato perché nella regione dove l’usura e il pizzo raggiungono percentuali altissime, sono presenti solo otto associazioni antiracket.
Dentro a questi numeri ci sono i clan. Sono loro gli artefici di questa rovina. Loro a sfruttare il territorio calabrese fino a prosciugarlo, loro, come raccontano gli ultime fatti di Rosarno, a trattare come schiavi i migranti di ogni nazione, loro a sposare clientele, strade preferenziali e infine loro a sparare contro il vicepresidente del Consiglio regionale Franco Fortugno, a fare strage a Duisburg. E loro, oggi, sono circa 155 cosche, alleata, in guerra, federate. Ci sono capi, sottocapi, killer. Tutti protagonisti o comparse di un esercito da oltre 7.000 affiliati, impegnati a trafficare droga, armi o rifiuti tossici, senza dimenticare i grandi appalti pubblici dalla Salerno-Reggio Calabria alla Statale ionica.
A Reggio Calabria i clan sono 14 arroccati su due fronti solo apparentemente opposti: da un lato i De Stefano e dall’altro i Condello. E con i De Stefano stanno i Labate, con gli altri i Tegano e i Libri. E dietro ai nomi ci sono gli uomini, quasi sempre menti raffinatissime. Come Giuseppe Morabito, u tiradrittu, dominus dei clan di Africo o Antonio Pelle, detto gambezza, recentemente scomparso, ma per anni principe nero di San Luca. Poco più in là Platì, la mente della ‘ndrangheta. Barbaro, Sergi, Papalia, Marando sono l’anima nera di questo paese a ridosso dell’Aspromonte. E’ la Locride e Locri, teatro di guerra tra i Cataldo e i Cordì, oggi meno di ieri e soprattutto dopo l’omicidio di Franco Fortugno. Perché quegli spari fuori dal seggio delle primarie del Pd, il 16 ottobre 2005, rappresentano uno spartiacque, ancor più della bomba del 3 gennaio scorso al palazzo della Procura generale di Reggio Calabria. In quel momento la ‘ndrangheta si sdoppia: da un lato gli affiliati, dall’altro gli invisibili, i capi occulti, veri massoni in grado di trattare sullo stesso piano con la politica e con l’impresa, quell’impresa che qui in Calabria non alza mai la voce e non denuncia.
Oltre la Locride c’è la provincia di Vibo Valentia e il paese di Limbadi, regno del clan Mancuso. Potenti e ricchissimi, con base anche a Milano, attorno a loro ruota un vero comitato d’affari come ha dimostrato l’operazione Dinasty 2. Al centro dell’inchiesta un enorme investimento immobiliare favorito da un magistrato che secondo il gip ha avuto il ruolo di «garante della cosca».
In Calabria quasi ogni paese ha un clan di ‘ndrangheta. A Gioiosa Ionica ci sono i Coluccio, broker della cocaina in contatto diretto con i padrini di Montreal e New York. Sempre sulla fascia Ionica ci sono i Gallace-Novella di Guardavalle, i cui interessi escono dalla Calabria e arrivano nel basso Lazio attorno alla zona di Nettuno. Qui la cosca dispone di appoggi e basi logistiche dove poter organizzare anche summit di mafia come quello avvenuto nel 1999 al ristorante Scacciapensieri. E poi c’è Isola Capo Rizzuto con la sanguinosa faida tra gli Arena e Nicoscia e tutto il catanzarese dove spicca la cosca Ferrazzo di Mesoraca capace di riciclare in Svizzera oltre sette milioni di euro in due anni.
Ma oltre alla geografia dei luoghi, ci sono i protagonisti di questa ragnatela che tiene assieme il traffico della droga con gli omicidi, l’impresa con la politica. Uno di questi è certamente Domenico Crea, primo dei non eletti alle Regionali del 2005 e promosso solo dopo l’omicidio Fortugno, quindi transfugo dal centrosinistra dell’allora Margherita alla nuova Dc e alla fine indagato, arrestato e ora processato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2008 Crea viene coinvolto nell’inchiesta Onorata società. Lui, secondo i magistrati, è un colletto bianco, uno di quelli bravi a mediare e lavorare dietro le quinte. Nelle oltre mille pagine di ordinanza a un certo punto i magistrati parlano di Sistema Crea e lo identificano in un’intercettazione. Eccola: «La sanità è prima. Come budget 7 mila miliardi, seguimi, con la sanità 7 mila miliardi, 3 miliardi 360 milioni di euro hai ogni anno sopra il bilancio della sanità. Ora si sta facendo di entrare con la sanità anche sui servizi sociali e ti prendi un’altra bella fetta di conti quindi pensa tu da 7.000 arrivi a 9.000 miliardi». Un fiume di denaro che lui gestisce in prima persone per conto di altri. «Le indagini – si legge nella relazione dell’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione – hanno fatto emergere il legame con la ‘ndrina dei Morabito-Zavettieri di Africo e Roghudi, alleata dei Cordì di Locri e dei Talia di Bova Marina».
E il futuro? Nei piani della ‘ndrangheta ci sono due grandi partite da giocare: da un lato l’Expo 2015 e dall’altro le regionali calabresi della prossima primavera. Da qualche mese a Milano sarebbe arrivato un referente delle cosche reggine per iniziare a tessere i primi fili con le istituzioni locali, mentre per le prossime elezioni nomi e ruoli sembrano chiarirsi giorno dopo giorno. A sostenere il candidato del Pdl e attuale sindaco di Reggio Calabria Giovanni Scopelliti, saranno due politici che in passato sono stati accusati di aver stretto rapporti un po’ troppo spregiudicati con le cosche.