Riporto qui sotto l’articolo di Norma Rangeri apparso sul Manifesto che commenta le parole di Nichi Vendola alla trasmissione che tempo che fa di Domenica scorsa.
Aggiungo anche i link al video dell’intervista in oggetto. Una mia piccola considerazione. Quasi quasi se me lo concedono chiedo il trasferimento nella sede di Bari per vivere 5 anni nella regione governata da Vendola.
di Norma Rangeri – il Manifesto
«Riconosciamo che siamo gente culturalmente sconfitta, che non si vince con una campagna elettorale, ma con una lunga campagna civile e culturale». Solo partendo da qui riusciremo a ridare «un cuore, un’emozione, una speranza alla sinistra». Messo di fronte alle domande dell’attualità politica, davanti alle telecamere di Chetempochefa, Nichi Vendola, il popolare presidente della regione Puglia, non regala scorciatoie, afferma invece la convinzione che dall’egemonia berlusconiana si esce non con un leader ma con un popolo.
Il buon senso, quel realismo che la retorica del dibattito pubblico assegna al partito di Bersani va dunque capovolto su ogni aspetto dell’agenda politica. A cominciare dalla malcelata maschera di terrore che eventuali elezioni anticipate proiettano sui volti dei dirigenti del Pd. La crisi sconsiglia le urne o proprio perché il centrodestra ha fallito, incapace di dare una risposta alla crisi, non bisogna avere paura di offrire un’alternativa? Servirebbe una visione del mondo, né retorica, né nostalgica, semplicemente alternativa alla cultura della destra.
Non c’è alcun buon senso nel pensare a una riunificazione, a una pacificazione possibile in nome del 25 Aprile. Vendola invita la sinistra a coltivare il suo campo, lontana da chi ancora intende la patria legata alla terra e al sangue. Interessiamoci alla specie umana e sarà naturale capire che nessuna riunificazione può esserci con le ragioni della destra populista, con chi ruppe il matrimonio tra libertà e lavoro sancito dall’artico1 della Costituzione, con chi oggi prosegue l’opera attaccando l’articolo18, imponendo la precarietà del lavoro isolando e umiliando le persone, povere ma libere di vivere nel consumificio. E attenzione massima al fascismo del linguaggio, al progressivo, lento, continuo slittamento verso la trasformazione della barbarie in senso comune della brava gente assuefatta all’intolleranza, al punto da negare il pranzo ai bambini immigrati.
Non c’è buon senso nel disegnare gli italiani come un popolo moderato, quando proprio dalla Resistenza viene una lezione di scelte individuali contro l’ignavia, di persone che lasciavano la famiglia «che si esponevano ai pericoli piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori», come ieri, su Repubblica, scriveva Gustavo Zagrebelsky rileggendo le lettere dei condannati a morte.
È questa la radice profonda della democrazia, l’opposto della vulgata sul moderatismo italiano. Quella storia è stata lasciata rinsecchire, tanto che oggi, di fronte al cortocircuito del centrodestra, anziché curare quella radice, c’è chi ancora ritiene sufficiente cambiare l’inquilino della stanza dei bottoni. «Se la sinistra cerca uno spazio nell’accampamento del centrodestra», se mira a un «alleanzismo», secondo Vendola siamo fritti. Abbiamo bisogno di «un’invasione di campo», assumendo la battaglia al berlusconismo come una lunga marcia dentro un’egemonia culturale che ha ammazzato la politica sostituendola con un leader carismatico. Pensare di cambiare le cose con un Berlusconi di sinistra al posto dell’originale, credere di risollevarci dalla sconfitta pescando un personaggio televisivamente efficace, con la battuta e l’estetica giusta non porta da nessuna parte.
Elaborare il lutto della scomparsa della sinistra, mettendo in conto «un vuoto che la vita politica italiana non ammette», come scriveva Luigi Pintor, può farci ritrovare le parole capaci di comunicare il sentimento delle idee.