Mi era sfuggito, ma la mia amica Anna mi ha fatto venire voglia di andarlo a vedere per vivere le stesse emozioni che ha vissuto lei. Le ho chiesto di poter pubblicare la lettera che mi ha mandato perché sono emozioni, parole che fanno riflettere. Troppo spesso le immagini che vediamo nei telegiornali che raccontano di sbarchi di richiedenti asilo che scappano da guerre, fame e sofferenze, non ci sembrano reali, non ci toccano nel profondo. Ci sembra di vedere un film e non la cronaca di una realtà che capita a pochi chilometri da noi. Ci sono persone che incitano alla costruzioni di muri per tener fuori dal loro territorio sofferenza e disperazione non capendo che così aumentano sofferenza e disperazione. L’accoglienza nel rispetto dell’umano è la sola risposta che si possa dare, non muri ma amore e rispetto.
Ecco la lettera della mia amica Anna Santunione Grandi:
Lunedì scorso, saltando da un canale all’altro, sono finita su Rai3 che trasmetteva “Fuocammare”, film documentario dedicato ai profughi ed ai lampedusiani.
Il film era sul finire, ahimè… o forse è stato un bene: così capace di catapultarti nel dolore degli altri, non so se sarei riuscita, in effetti, a guardarlo fino alla fine, perdendomi poi il dopo-film.
Eppure, anche se per breve durata, pareva quasi di sentire gli odori, l’angoscia, la fatica, la disperazione di tutti gli esseri coinvolti, di quelle persone “umanamente persone”.
Il medico di Lampedusa, che visitava un bambino ansioso, dall’occhio bendato, aveva una delicatezza che non riusciva a mascherarsi completamente nemmeno col suo aspetto severo. Lui ascoltava il bambino, lo lasciava parlare, proprio come fosse un adulto, con serietà e mostrando tutto quel rispetto che sarebbe dovuto ad ogni essere umano.
Alla fine del film ha fatto seguito “Fuocammare Assoluto”, con le interviste ad alcuni cittadini di Lampedusa; io ora confondo cosa rientrava nel film e cosa nel documentario finale, ma non ha importanza, perché l’emozione arrivava ugualmente così forte, senza essere limitata dal “prima” e dal “dopo” .
Il pescatore che, pur salvando 12 persone che stavano annegando, si cruccia ancora di non essere partito prima, quella mattina, per poterne salvare di più; più che volti, lui vedeva la sommità delle teste, già sprofondate nel mare, che ogni tanto riemergevano con gli ultimi sussulti di vita.
E la sua mano tesa, che si aggrappava ai vestiti, per tirarli in barca, con una forza impossibile da immaginare per una persona con la sua fisicità…. ed il legame che è rimasto, con loro, ormai in salvo nel Nord Europa.
Un legame che non si scinderà mai, mantenuto vivo anche grazie alle nuove tecnologie, a Skype. Stupiva vedere quel pescatore non più giovane, dalle mani tozze e rugose utilizzare il computer per “accedere” agli incontri con i suoi ragazzi lontani. Cosa non si arriva a fare per amore!
Infine, una sua risposta alla domanda dell’intervistatore sui muri eretti in Europa: “Nel mare non si possono costruire muri…. E loro scappano da guerre, da soprusi e da fame, altrimenti non rischierebbero la vita”
Un eroe, è stato definito dalle maggiori testate giornalistiche, che lucrano sull’emotività del momento. E lui “Ma io non sono un eroe, sono un uomo di un’isola”.
Ed i racconti sulle donne che, quando nel 2013 i profughi erano quasi il doppio degli abitanti di Lampedusa ed il centro di raccolta non aveva abbastanza cibo, apparecchiavano per loro tavole nei cortili, per potere garantire almeno un pasto.
E le visite al piccolo cimitero (ora anche i defunti vengono trasferiti sulla terraferma), con cartelli improvvisati ma garanti di dignità…
E gli infiniti faldoni, con i dati e quanto potuto recuperare da ogni migrante morto, affinchè sia possibile un eventuale riconoscimento da parte dei familiari. Una stanza stracolma, con un funzionario ancora altamente motivato da questo suo lavoro terribile di riuscire ad assegnare nomi ed una storia a chi non è mai arrivato vivo in terra italiana.
“Noi speriamo che, prima o poi, qualcuno si presenti a chiedere e di potere dare risposte, di potere lasciare come ricordo almeno le ultime cose.
“L’odore, lo sente questo odore di morte? Qui si respira realmente la morte” dice aprendo buste contenenti quanto era stato possibile recuperare dai corpi, anche da quelli in putrefazione.
Ed allora ecco bustine contenenti diverse foto tessera…. perché in Europa sarebbero servite sicuramente per i documenti…., un attestato di scuola di un ragazzino “Lo vede? Ci dice quali erano le aspettative del suo viaggio fin qui, poter studiare oltre”.… tante foto di familiari, di bambini piccolissimi lasciati nel paese di origine. E soldi, mucchietti di monete piegate, anche euro, necessari per sopravvivere nei primi periodi in paesi lontani.
Pareva di sentire i pensieri che quel funzionario provava all’apertura di ogni busta che doveva archiviare.
Era come avere una vita fra le mani: chi ha lasciato? chi lo aspetta inutilmente? dove voleva andare? come faranno i suoi cari senza avere notizie o denaro o la possibilità di ricongiunzione? ha lasciato bambini, genitori disperati? quanto avrà sofferto durante il viaggio?
Stanze trasudanti dolore, di speranze finite annegate…
Poi il medico legale donna, con grembiulone e spessi guanti di plastica che, con un irrigatore da giardino (sì, proprio come il mio), lavava guanti di lana marcescenti, perché anche quelli, in futuro, potevano servire ad assegnare un nome.
“E’ un lavoraccio” dice il giornalista “Ma serve per dare dignità ai morti, no?” E la dottoressa “Guardi, io penso che il fondo del mare sia, invece, il posto più dignitoso per il defunto, rispetto ad un nostro cimitero. Noi non lo facciamo per chi è morto, ma per chi è rimasto, affinchè sia possibile consegnare qualcosa ai familiari”
Poi il vigile del fuoco che, con la moglie in stato di gravidanza, sceso nella stiva di un barcone affondato con i corpi di più di 300 persone, nell’estrarre un corpo dopo l’altro, sotto a tutti, ha trovato quello di una mamma col pancione. Traumi ai quali non ci si può abituare mai. Che fatica la vita per tutti i soccorritori, così a contatto con morti che potevano essere evitate e con un orrore che si ripete quasi ogni giorno!
Il tutto inframmezzato da filmati originali, coi salvataggi dei vivi ed il recupero dei morti, il racconto ed il dolore infinito nella voce, eppur calma e pacata, come si conviene ad un capitano di Marina che racconta.
Ed il mare, bellissimo, ma che con le sue onde mostra tutta la sua forza. Ed il barcone affondato vicino all’Isola dei Conigli, in luoghi meravigliosi dove si va in vacanza, dove il turismo richiede obbligatoriamente l’oblio.
E le immagini di alcuni sopravvissuti, la loro disidratazione evidente, i visi disperati senza più lacrime, incapaci perfino di provare quell’immediato sollievo che coglie quando si è sopravvissuti ad un pericolo.
Ed il cimitero dei barconi, pieni ancora dei resti delle traversate: ritagli di indumenti, legni e chissà che altro, contenitori di plastica bianchi, blu…. gli stessi ai quali si aggrappavano i profughi in mare per non affondare.
E quelle statue, in fondo al mare, inquietanti eppur bellissime, a rappresentare questa migrazione infinita.
Io lo devo rivedere dall’inizio, in un qualche modo, per verificare la corrispondenza di questi miei ricordi “notturni” con quanto realmente trasmesso, ma credo che ciò che volevano gli autori fosse trasmettere un insieme di emozioni, difficili anche da riconoscere. E, anche se con me hanno fatto centro, sono rimasta colpita da quante persone hanno preferito appositamente “non vedere” per non stare male.
Che storie! Ma, in fondo, ogni uomo è una storia: chi cerca una vita migliore, chi salva ed accoglie e chi sceglie di non vedere….
Vignola 4 ottobre 2016