Un sentimento che dilaga, invade le nostre conversazioni, i nostri rapporti, i nostri cuori. Anche noi, come il Renzo di Manzoni, siamo impauriti dalla nostra stessa paura . Con quale diga possiamo fermarla? Una risposta
di Angelo Scola, Arcivescovo emerito di Milano
Renzo “atterrito, più che di ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse” (I promessi sposi, capitolo ventisettesimo).
Questa potente osservazione del Manzoni sul violento contrasto che si agita in Renzo in fuga da Milano verso la bergamasca nella traversata notturna del bosco, interpreta i sentimenti di smarrimento, paura e panico che stanno afferrando tutti noi. Anche noi siamo atterriti più che dal coronavirus in se stesso dalla nostra umanissima paura. E’ come se questo sentimento avesse perso il suo oggetto per assumere una sorta di valore assoluto. Forse vi ha contribuito il continuo oscillare dell’informazione tra minimizzazione e allarmismo. Conviene però subito dire che la paura può e deve essere vinta, proprio facendo tesoro dell’indicazione manzoniana “e comandò al cuore che reggesse”.
L’elenco doloroso e puntuale degli effetti del coronavirus, le ordinanze con le inevitabili restrizioni, gli accurati consigli per prevenire il contagio o per affrontarlo in modo efficace , la compassione per quanti muoiono non certo sminuibile a causa dell’età… cui la paura si lega, ora non la circoscrivono più. Essa se ne va come un cavallo di razza, indomabile, a briglia sciolta, espressione impalpabile ma ostinata del contagio che ci minaccia. Certo, questa minaccia incontra altre strade per tenerci sotto scacco. La più imponente è quella delle conseguenze economiche senza dubbio rilevanti. Eppure nemmeno questo oggetto che, subito dopo il primo, va affrontato con pronta serietà e rigore, riesce a dar ragione della nostra paura. Essa dilaga in totale autonomia invadendo le nostre conversazioni, i nostri ristretti rapporti e, per finire, i nostri cuori. Anche noi, come Renzo, siamo impauriti dalla nostra stessa paura. Con quale diga fermarla?
Con la forza di un soggetto, personale e comunitario, che comandi al cuore di reggere. Ma, per eseguire questo comando che viene anzitutto dall’interno di noi stessi, è necessario trovare la giusta risorsa. Anzitutto riconoscendo un grave limite che l’attuale cambiamento d’epoca mette in risalto ma la cui radice risale all’inizio dell’epoca moderna. Mi riferisco alla rimozione del soggetto.
Questa circostanza straordinaria può essere affrontata solo riportandola al soggetto che la sta vivendo, secondo le varie modalità con cui gli tocca viverla. Da tutti noi, più o meno a rischio di contagio, ai malati, allo strenuamente dedito personale sanitario e a quanti altri sono direttamente coinvolti nell’impresa di porre fine all’epidemia. Per rapportarmi in modo adeguato a questa circostanza devo rispondere alla domanda “chi sono io?”. E l’io è sempre in relazione. Soprattutto quando la vita è minacciata non si può eludere l’invito di Seneca a Lucilio: “Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso”. Dobbiamo riannodarci, nel rispetto delle nuove forme culturali, al fattore portante della grande tradizione europea: il rapporto con noi stessi, con gli altri e con Dio. Lo si riconosca o meno ciò fa parte della nostra comune espe rienza. In una parola non possiamo più evitare la questione del senso: per chi io vivo? E quale direzione intendo dare al mio cammino terreno? A rendere ineludibili queste domande non è solo la naturale compassione umana che urge a stringerci insieme nei momenti minacciosi, ma è il bene sociale del vivere insieme.
Anche all’interno di una società plurale come la nostra questo criterio pratico è l’unico in grado di ricondurre entro li miti razionali smarrimento, paura e panico. Il criterio pratico del vivere insieme dev’essere però assunto come criterio politico in senso pieno, e perciò largo, che sappia coinvolgere cittadini, corpi intermedi e istituzioni. Per vincere la paura abbiamo bisogno di una rimobilitazione generale di questi soggetti.
Non possiamo qui sottacere il compito dei politici in senso stretto. Il nostro è un tempo in cui nella pratica e nella teoria dovremmo saperci ridire che cos’è l’esperienza politica (la res publica), un interrogativo su cui i più grandi geni della nostra cultura si sono chinati. In modo poi specialissimo è decisivo che i politici pratichino una concezione adeguata di governo. Già Platone stabiliva un’interessante analogia tra il politico e il tessitore che per ottenere una stoffa liscia ma resistente “deve essere capace di intrecciare un solido ordito con una tenera trama”, al fine di comporre “gli opposti pareri, le opposte opinioni”. L’aristotelica filìa (amicizia civica) torna di grande attualità.