Di Giuseppe Scalella OSA
Un altro anno se n’è andato e il tempo cede il posto al nuovo, appena arrivato.
Certo, dobbiamo dire tutti che il 2020 non è stato un anno favorevole. Ma dobbiamo dire, come dicono tanti, che è un anno da dimenticare? Forse il nuovo che si affaccia sarà migliore? Ne siamo proprio certi? Ce lo auguriamo tutti, ma la nostra speranza dove sta? Nel nuovo anno che arriva? Nella salute? Nella sicurezza? Nel vaccino anti-Covid? Nella scienza, che nonostante la sua insufficienza e i suoi fallimenti, sembra diventata la nuova religione?
In questi giorni di bilanci, ci si affanna nelle valutazioni e nei pronostici, se ne trovano sui giornali, nei talk-show, sui social, ma senza quella lucidità e intelligenza che sarebbero davvero necessarie dopo un anno come quello che abbiamo passato.
Non abbiamo forse dimenticato che proprio il tempo che si vuole cancellare porta dentro una promessa, una grande promessa, e l’unico in grado di sorprenderla è il nostro cuore?
Sì, il cuore, che non è solo il muscolo che ci tiene in vita e neppure quel sentimentalismo vago e strappa lacrime a cui lo abbiamo ridotto. E’ invece – come ci insegna la cultura ebraico/biblica – tutta la persona nell’unità della sua coscienza, della sua intelligenza, della sua libertà. E’ quella capacità che ci permette di dire “io” anche in mezzo alle tempeste più feroci e di scommettere tutto sulla libertà.
“Immenso è il cuore umano – scriveva André Malreaux – e noi lo riempiamo con il cucchiaino di misere coserelline”.
La tristezza più grande che accompagna la fine di questo anno, che io, a differenza dei più, mi rifiuto di definire “maledetto”, sta tutta in quella demenza che tende a ridurre il “cuore” umano e a farne una sorta di fantoccio di cui prendersi gioco. Perché, a dire di molti, le cose di cui occuparsi sono ben altre, non certo il cuore.
E se Dio, facendosi uomo e venendo sulla terra, avesse fatto lo stesso?