Via Romilli è una lunga strada stretta nel quartiere Corvetto. Ci si arriva da piazza Bonomelli e ancora prima percorrendo viale Ortles. Un reticolo di vie ben conosciuto dagli investigatori che in questa zona fissano il centro operativo di Cosa nostra a Milano. Qui, nel maggio scorso, sono arrivati in trasferta anche i carabinieri di Palermo. In mano avevano indirizzi precisi. Il blitz, però, si è rivelato un buco nell’acqua.
Cercavano un uomo di 74 anni, dal fisico appesantito, il sorriso incattivito da un canino d’acciaio e quei due occhi piccoli che si intravedono da dietro la pesante montatura degli occhiali. Questo il ritratto più recente di Gaetano Fidanzati, detto Tanino, indiscusso padrino di Cosa nostra, il cui nome compare nella lista dei trenta latitanti più pericolosi. Tra questi, lui, che nel 1989 partecipò al primo fallito attentato a Giovanni Falcone, è certamente il più ricercato, assieme a Gianni Nicchi e a Matteo Messina Denaro. In poche parole il gotha della mafia oggi.
Narcotrafficante di primissimo livello, da sempre Fidanzati è uno degli ambasciatori di Cosa nostra sotto la Madonnina. Per questo, magistrati e investigatori, non hanno dubbi: «Tanino sta a Milano». Ipotesi confermata da Giovanni Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova, per il quale «Fidanzati va sempre là a Milano che lì ha i villini».
Non solo, il campo delle ricerche, ormai da un anno, si è ristretto a quelle poche vie del Corvetto. E nonostante questo, il boss, che a Palermo è il reggente della potente famiglia mafiosa dell’Arenella, sembra un fantasma. Un fantasma ricercato per omicidio e associazione mafiosa.
Tanino da latitante, però, ci vive da sempre. In realtà lo diventa veramente solo nel 2008, quando sfugge all’arresto per l’omicidio di Giovanni Bucaro, un giovanotto palermitano, amante della figlia del boss alla quale, però, aveva mancato di rispetto. Per questo Fidanzati ne decreta la morte. Il nome del padrino compare anche nell’inchiesta Perseo, l’ultima grande indagine sulle famiglie palermitane.
In quell’inchiesta c’è anche il nome di Fabio Manno, detto «sette di denari», capo della famiglia di Borgo Vecchio. Arrestato assieme ad altre 90 persone, Manno decide di pentirsi. Ai magistrati rivela un suo viaggio a Milano, dove incontra Enrico Di Grusa, il genero di Vittorio Mangano, l’ex fattore di Silvio Berlusconi e Guglielmo Fidanzati, il figlio di don Tanino. Ecco il suo racconto: «Alberto ed Enrico Di Grusa mi hanno portato nel loro ufficio di piazzale Corvetto, però quando siamo entrati mi hanno detto: ssst, non parlare, cimici. Siamo andati a mangiare e, parlando gli ho detto, “ma Guglielmo come sta, sta bene?” Il figlio di Gaetano Fidanzati, dice “sì, tutto bene”. Ed io, “ma l’hai sentito il fatto di suo padre, ma dov’è? Sapete qualcosa?” Dice: “è a Milano”».
A questo punto Di Grusa chiede a Manno: «Che fai, lo vuoi salutare? Gli ho detto, salutatemelo se lo vedete. Quindi questo significa che sono proprio loro che garantiscono la latitanza di Fidanzati». La deduzione viene confermata dall’allora pm Maurizio De Lucia, oggi alla Dna di Roma.
Oltre a questo, quello che colpisce è il legame Mangano-Fidanzati. In comune, oltre all’appartenenza mafiosa, i due hanno i moli assolati dell’Arenella. Gli stessi dove negli anni Settanta un tale Marcello Dell’Utri mestierava da allenatore del Bacigalupo. Ovviamente solo coincidenze.
Nessun dubbio, invece, sull’attuale ruolo di comando di don Tanino, che dopo la sconfitta dei corleonesi, l’arresto dei Lo Piccolo, è diventato un quotato referente di quasi tutte le famiglie di Palermo. Lui ascolta e dispensa consigli, ecco l’ultimo prima della sua latitanza rivolto ad Antonio Caruso, soldato dell’Arenella. L’intercettazione si trova nell’inchiesta Eos. Fidanzati ricorda i suoi trascorsi assieme ai potentissimi fratelli Bono. «Quando c’è l’onestà in una famiglia, quando c’è il rispetto, paga! Un conto vuol dire il rappresentante, un conto il sottocapo, un conto il capo decina, un conto il consigliere, quando si è tutti d’accordo qualsiasi cosa succede siamo tutti uniti».
Che Milano negli ultimi tempi sia diventata meta privilegiata dei latitanti di Cosa nostra, ancora una volta lo conferma il pentito Fabio Manno che in un night di piazza Diaz, a due passi dal Duomo, incontra Gianni Nicchi, giovanissimo erede dell’ala corleonese. «Lui si faceva chiamare Marco. Non aveva la barba, alto, magro, vestiti alla moda e sigaro in bocca». Poi, Manno fa un nome. Dice: «So che Pino il cinese è molto vicino a Gianni Nicchi».
Pino il Cinese è Giuseppe Porto, siciliano di Trabia (vicino Palerno), imprenditore da anni a Milano, legatissimo a Enrico Di Grusa, alle figlie di Vittorio Mangano e al boss della ‘ndrangheta Salvatore Morabito. Ma questa è un’altra storia.
Fonte articolo: il Manifesto del 29/11/009 di Davide Milosa.
Fonte foto: www.milanomafia.com