Una città e tre mandamenti. Nord, centro, sud. Questa la linea attraverso la quale si snoda la presenza criminale a Reggio Calabria. Presenza di ‘ndrangheta, ovviamente, che assieme è controllo del territorio e potere mafioso, impastato di politica e massoneria deviata. Un’escalation di ruoli e interpreti che dopo la bomba del 3 gennaio riporta questa città al centro dell’attenzione nazionale. Città sotto assedio da anni, ma oggi forse più di ieri con gli equilibri mafiosi sempre più fragili e l’incubo di una guerra di mafia che spazzi via i frondisti consolidando una nuova gestione oligarchica fondata su un «collegio senatoriale». Una vera commissione, dunque, capace di decisioni unitarie (come potrebbe essere stato l’attentato alla Procura ), e per questo in grado di ottimizzare gli affari in Calabria e, riferiscono fonti investigative, anche in Lombardia dove la torta per Expo 2015 deve essere distribuita in maniera equa per non creare pericolosi attriti tra le cosche.
Dall’alto verso il basso, a Reggio la presenza mafiosa si insinua nei palazzi del potere fino dentro ai vicoli di Archi o Cannavò. Tra città e periferia oggi sono i 14 i clan in attività. A questi fanno riferimento 24 famiglie. Allargandosi, poi, alla provincia i numeri aumentano esponenzialmente con oltre cento locali di ‘ndrangheta, più di 7.000 affiliati, tra questi ben 255 sono donne, vale a dire il 3% del totale.
Sono dati che impressionano e che spiegano nei fatti cos’è oggi il controllo del territorio in città. Qui la realtà significa pizzo. Secondo gli ultimi dati di Confesercenti il 70% delle imprese di Reggio Calabria paga la tangente ai boss. A tutti i boss, quelli di secondo livello, ma anche ai grandi capibastone «che – spiega il colonnello Carlo Pieroni del Reparto operativo dei carabinieri di Reggio – pur trafficando quintali di cocaina, non si fanno problemi a farsi dare i 500 euro dal macellaio». Il pizzo non è un’entrata economica «ma – prosegue Pieroni – una questione di rispetto e di controllo della propria zona».
Attualmente in città sono due i nomi da tenere sott’occhio: da un lato i De Stefano e dall’altro i Condello. Si tratta di famiglie-cartello cui fanno riferimento gli altri clan. Fino a pochi anni fa, le due cosche erano in guerra, oggi, secondo i Ros, avrebbero siglato un patto d’affari. La decisione è stata presa proprio dai De Stefano grazie alla mediazione di Giovanni Tegano (tra i 30 latitanti più pericolosi) che ha stretto l’alleanza prima con Pasquale Condello (arrestato il 18 febbraio 2008) e poi con il latitante e cugino Domenico Condello, anche lui nella lista dei trenta. Scrivono i Ros: «Dietro a questo patto, potrebbe esserci l’avvio di un sistema in grado di affrontare gli affari di maggiori proporzioni, soprattutto nel settore dei lavori pubblici, dove è confermata l’incidenza della famiglia Libri». Il clan, capeggiato da Pasquale Libri, è egemone nel quartiere Cannavò. Se ne parla nel processo Ronin. Scrive, infatti, il gip: «Si è documentato il controllo mafioso di appalti pubblici, legati allo smaltimento dei rifiuti e alla gestione delle discariche». Il tutto attraverso «un accordo imprenditoriale raggiunto tra Domenico Libri, per conto della cosca Tegano, e l’organizzazione di Pasquale Condello».
Con le alleanze cambiano anche gli identikit dei boss. «Oggi – prosegue Pieroni – siamo di fronte alla quarta, quinta generazione della ‘ndrangheta. Si tratta di gente che ha studiato e che occupa posti importanti nell’amministrazione pubblica». Ci sono avvocati, medici, politici. Insomma, uno degli allarmi qui a Reggio Calabria è quello di una classe dirigente, in parte contaminata dalla ‘ndrangheta. «Si pensi – dice Pieroni – che una delle figlie di Giuseppe Morabito, boss di Africo, oggi lavora all’Asl di Locri».
A Reggio Calabria, poi, ‘ndrangheta e massoneria costituiscono un esplosivo comitato affaristico-mafioso. Nel 1993 ecco cosa racconta il pentito Giacomo Lauro: «Ho vissuto le vicende di Reggio Calabria sin dal 1960, in città vi era già una presenza massonica tra politici, imprenditori, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, e pertanto vi era un nostro interesse diretto a mantenere un rapporto con essa». Sedici anni dopo nell’inchiesta Bellu lavuru, il cui processo guarda caso è pendente in Appello, ecco cosa scrivono i magistrati: «Da un paio d’anni gli appartenenti ai clan del reggino hanno creato una struttura parallela occulta i cui aderenti vengono denominati gli invisibili». Nemmeno gli affiliati sanno di questa struttura. E il motivo è semplice: «Se no oggi il mondo finisce; se no tutti cantano». Uno degli invisibili è ad esempio Sebastiano Altomonte coinvolto nell’inchiesta. Lui parla anche dei riti di iniziazione. «Si porta la cravatta nera, con il vestito nero e la camicia bianca». Lui è un invisibile come anche «l’avvocato Ciccio è pure massone. Suo fratello il dottore e quello di Palizzi che è maestro venerabile».
Fonte: “Il Manifesto” del 06/01/2010 di Davide MIlosa