In questi giorni la notizia dell’ennesimo suicidio di un operaio cinese nella fabbrica che produce gli IPAD. Ma la fabbrica non è usata solo dalla Apple ma da diverse multinazionali quali Apple, Microsoft, Motorola, Nokia, Hp, Dell, Sony ed Ericsson. Forse sarebbe opportuno pensare ad un boicottaggio verso queste multinazionali che sono complici della vita da schiavi a cui sono sottoposti questi lavoratori. E poi sono le stesse aziende che si fregiano della ceritificazione SA8000 cioè la certificazione della responsabilità sociale d’impresa ed etica. Qui sotto il reportage pubblicato su “La Repubblica” del 1/6/2010 di Giampaolo Visotti
Nella fabbrica della contemporaneità globale la catena di montaggio comincia a girare alle quattro del mattino e si ferma venti ore dopo causa manutenzione. Ottocentomila ragazzi tra i diciassette e i ventiquattro anni lavorano sette giorni su sette e guadagnano tra i novanta e i centoventi euro al mese. Cinquecento ore di straordinario aumentano la paga fino a sei euro al giorno. È un privilegio, concesso solo agli amici dei capi. Gli operai fanno turni quotidiani di dieci-dodici ore, non possono parlare tra di loro e non conoscono il nome del proprio vicino.Mangiano e dormono dentro gli stabilimenti e non vanno in ferie. Vivono con meno di un dollaro al giorno. Il resto lo spediscono a casa per pagare i debiti della famiglia. La loro vita professionale dura dai tre ai sei anni. Chi ci arriva scopre all’improvviso di essere già vecchio. Molti, dopo mesi trascorsi in silenzio e in una solitudine assoluta, dimenticano i vocaboli della propria lingua. Nessuno ha mai sorriso. Ogni mattina ottomila giovani, partiti dai villaggi di campagna con in testa il sogno degli shopping center delle metropoli, si mettono in fila nei centri di reclutamento. La fortuna si compra.
Gli «agenti dell’occupazione» chiedono trenta euro per un’assunzione, due per un letto, uno per il trasporto, da tre a dieci per un falso diploma di scuola professionale, cinque per il certificato di buona salute. Il primo stipendio finisce al mediatore . Quarantamila guardie della milizia aziendale sorvegliano capannoni e dormitori. Nessuno, senza un permesso speciale, può entrare o uscire dai tre chilometri quadrati della città-fabbrica senza nome più grande del mondo. I reparti sono divisi tra Shenzhen e Longhua, nella regione cinese del Guangdong. Li controlla la Foxconn. È una sigla ignota alla gente comune. I produttori mondiali invece la conoscono bene perché fornisce gli apparecchi elettronici che riempiono le nostre mani, le nostre orecchie, i nostri occhi, invadono
le nostre tasche e le nostre borse e sequestrano la nostra testa. Telefoni e computer di marchi come Apple, Microsoft, Motorola,
Nokia, Hp, Dell, Sony ed Ericsson,, nascono qui. Da questi reparti, misteriosi come una centrale atomica e inaccessibili come una prigione, escono iPod, iPad e iPhone. È il capolavoro di Terry Gou, il cinese nato a Taiwan che ha inventato il telecomando per la tivù. Vendeva accendini sulla strada: ha un patrimonio di 8 miliardi e ne fattura 60 all’anno. Tutto filava liscio. Il 23 gennaio scorso però Ma Xiangqian, a diciannove anni, si è buttato dalla camerata che da tre mesi condivideva con nove compagni. Lo strano caso Foxconn è iniziato alle due di quella notte. Gli altri operai si sono ricordati dell’anonimo sospettato di voler contrabbandare all’esterno i segreti di una «tavoletta magica». Dopo l’ispezione corporale pubblica, dall’esito negativo pur avendo scavato nelle profondità dell’intestino, si è lanciato nel vuoto. Il bilancio aziendale degli ultimi cinque mesi è questo: undici suicidi, due tentativi falliti, sedici sventati e trenta prevenuti dagli psichiatri. Secondo il governo cinese non è una tragedia. La percentuale dei suicidi Foxconn è di uno ogni centomila individui, rispetto alla media nazionale di sedici ogni centomila. La maledizione della fabbrica che consente al pianeta di essere connesso, per la legge del contrappasso, contende però al disastro petrolifero della Bp i titoli di apertura delle news mondiali. Terry Gou, atterrato in elicottero nel piazzale, che ha promesso di trasformare in un bell’idromassaggio per i dipendenti, è corso ai ripari. Ha assunto duemila psicologi e introdotto nei reparti alcuni monaci buddisti. Ha aperto una hot-line anti-suicidi, fatto firmare a tutti un contratto in cui ci si impegna a non togliersi la vita e a non far chiedere risarcimenti alla
famiglie, steso chilometri di reti sotto tetti e finestre degli stabilimenti. Alla Foxconn, per riuscire a uccidersi, adesso bisogna diventare degli acrobati e può essere inutile. Il divieto di ammazzarsi, per la prima volta, ha sollevato qualche perplessità anche in Cina. Pressata dai clienti, spaventati dal minacciato boicottaggio internazionale dei consumatori che non vogliono sentire sangue sulle
proprie tastiere, l’azienda l’ha sospeso. In cambio ha promesso aumenti di stipendi fino al venti per cento: un costo aggiuntivo di 145 milioni all’anno. Gli operai potrebbero presto disporre anche di tempo libero, di un cinema e di una sala di lettura. Nelle ultime ore non risulta che altri ragazzi Foxconn si siano tolti la vita, ma il virus dei diritti dei lavoratori sta contagiando altri colossi del Guangdong. Non era mai successo, nessuno si era nemmeno posto il problema che la massa dei nuovi schiavi cinesi potesse reclamare l’esigenza di un trattamento umano. Questa enorme novità ha investito gli stabilimenti Honda di Foshan, sempre nel tempestoso delta del Fiume delle Perle. Da metà maggio, 1900 operai si sono fermati e altre quattro fabbriche della casa automobilistica giapponese sono state costrette a sospendere la produzione. È il più grande sciopero pubblico della storia cinese. I dipendenti non chiedono diritti. Annegano nei mutui per l’appartamento, nei debiti delle carte di credito e nell’aumento di prezzo del cibo. Chiedono di passare da centocinquanta a duecentocinquanta dollari al mese. La Honda ha deciso, entro il 2011, di aumentare da 380 a 480 mila i veicoli prodotti in Cina ogni anno. Per l’auto questo è già il primo mercato e il primo produttore: 12 milioni i pezzi venduti nel 2009. Le maestranze, anche se può apparire strano, vogliono la loro parte e a Foshan emerge la nuova generazione dei lavoratori cinesi. Sono giovani appena diplomati, emigrati dalle campagne dell’interno, nati dopo che il comunismo proletario si è trasformato in capitalismo di Stato, figli unici, ansiosi di guadagnarsi ciò che nel resto del mondo i loro coetanei pretendono. Dodici
suicidi in una fabbrica taiwanese con ottocentomila dipendenti e uno sciopero di duemila operai in un gruppo giapponese, per un universo asiatico di un miliardo e trecento milioni di persone, sono una goccia che cade nel deserto. La Cina però risulta scossa e la comunità internazionale, per motivi diversi, terrorizzata. Qualche settimana fa, per non rovinarsi anche i Mondiali di calcio in Sudafrica, lo «scandalo della mascotte» è stato soffocato da piccolo. Sottratti temporaneamente alle fornaci clandestine, migliaia di bambini cinesi erano stati tolti ai mattoni e messi a cucire gratis i gadget che invadono oggi i nostri negozi sportivi. Questa volta è diverso. Su Foxconn e Honda, Pechino vede salire la fine della crescita economica e calare l’ombra del proprio potere politico. Le multinazionali che esprimono i governi stranieri avvertono invece l’esaurimento dell’unica sorgente che, oltre ai loro bilanci, potrebbe sostenere la ripresa dell’Occidente. L’operaio cinese, negli ultimi vent’anni, ha salvato il mondo. È l’eroe del nostro
tempo e non può ribellarsi prima di saltare l’ultimo ostacolo, spingendo il pianeta fuori mercato. La Cina lo ha capito. I media nazionali, dopo aver denunciato suicidi e scioperi nei luoghi-simbolo della delocalizzazione straniera, hanno sospeso l’aggiornamento dei fatti. Il 4 giugno è l’anniversario di Tiananmen. Gli studenti, nel 1989, sono morti in piazza per libertà e democrazia. Ventuno anni dopo gli operai migranti, loro coetanei, si ammazzano nei dormitori per le rate della casa e la solitudine della vita. Le catene di montaggio delle auto di Foshan non sono i cantieri navali di Danzica, ma Pechino avvista il pericolo di un altro Muro che crolla. I sindacalisti cinesi, manager dei gruppi di Stato, continuano a sorvegliare i lavoratori, piuttosto che difenderli. Aumentare i costi e riconoscere ai giovani il diritto di non essere schiavi, come i loro padri, spinge la produttività, ma fa fuggire le imprese. Per questo il governo è diviso. Gli innovatori puntano sull’aumento dei salari, per sostenere i consumi interni e irrobustire il ceto medio metropolitano. I conservatori esigono la repressione di ogni protesta, per salvare l’autoritarismo fondato sull’export e sui miserabili dispersi dei villaggi. Il resto del pianeta aggiorna semplicemente l’agenda: modernizzare in fretta infrastrutture e tecnologia di India, Vietnam e Cambogia, per trasformarle nelle Cine promesse del prossimo Oriente. L’originale si imbatte nei guai dello sviluppo: entro il 2030 il 70 per cento della popolazione cinese vivrà in città da settanta milioni di abitanti, il 90 per cento dei nuovi colletti bianchi manifesta problemi di equilibrio nervoso, il reddito medio dei laureati in dieci anni è sceso da 580 a 260 dollari al mese. L’operaio cinese si ribella e il mondo, sperando ma non troppo che trovi il suo Lech Walesa, taglia discretamente la corda. Dietro i nostri cellulari c’è la generazione Foxconn di Shenzhen. Ha dieci minuti al giorno per mangiare e se non finisce tutto, per contratto, viene licenziata. Terry Gou si scusa e dice «siamo solo business». Gli amici dei suicidi ieri si sono inginocchiati in fabbrica perché «qui nessuno sa chi sei e a nessuno importa di te». Nell’agosto 1989 l’Europa ha avuto il coraggio di aprire la frontiera tra Ungheria e Germania Est. A Pechino nessuno crede che il mondo abbia oggi il coraggio di chiudere una catena di montaggio nel Guangdong.