E ora? La domanda si impone. Perché Giuseppe e Filippo Graviano, il primo tacendo, il secondo sbugiardando il suo ex killer, in mezza giornata hanno ridimensionato parole e scenari sollevati da Gaspare Spatuzza. Ma quale Dell’Utri. La seconda trattativa tra Stato e mafia? Mai nemmeno pensata. Siamo a un classico italiano: la montagna che partorisce il topolino. Si vedrà. Dal canto loro i magistrati di Firenze, titolari della nuova inchiesta sulle stragi del 1993, giurano: «Abbiamo altri itinerari».
Eppure, a guardar bene, la giornata che non chiude il cerchio, lascia sul tavolo la storia di due fratelli, due capimafia, due menti sanguinarie eppure affilatissime, in grado di muovere pedine come esperti pupari. Filippo, 48 anni, il più vecchio, magro magro con i capelli impomatati. Giuseppe, tre anni in meno, fisico massiccio, riccioli in testa, più silenzioso. Giacca e dolcevita. Eleganti senza esagerare. La loro è una storia che dai vicoli di Brancaccio arriva fino al centro di Milano e qui, sotto le distratte guglie del Duomo, si complica.
Prima di tutto, però, c’è Palermo e i vicoli di Brancaccio. Terra di mafia da sempre. E da sempre terra dei Graviano. A partire dal padre Michele, boss ucciso agli inizi degli anni Ottanta. All’epoca Filippo e Giuseppe, fanno batteria assieme al terzo fratello, Benedetto. Chi si distingue è Giuseppe che si dimostra un perfetto killer. Doti che non sfuggono ai corleonesi. Forza e carisma sono qualità decisive. E così nel 1986 i Graviano entrano nella Commissione. Vi rimarranno fino al 1992. Un anno cruciale: muore Salvo Lima e con lui naufraga l’asse con la Dc. Muoiono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il gennaio del 1993 si porta in dote l’arresto di Salvatore Riina. Chi resta fuori tiene la linea. Arrivano le bombe volute da Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e dai Graviano che proprio per quei fatti vengono condannati. La Sentenza di Firenze li inchioda «come responsabili di tutti i fatti di strage». Dal continente di nuovo a Brancaccio dove il 15 settembre viene ucciso don Pino Puglisi. Delitto voluto dai Graviano e portato a termine da Spatuzza.
Quella del 1993 è un’estate calda con una partita politica giocata sull’asse Arcore-Costa Smeralda, dove Berlusconi prepara la sua «discesa in campo». I Graviano lasciano la Sicilia per spostarsi prima a Forte dei Marmi e poi probabilmente proprio in Sardegna. Solo un caso, evidentemente. Come è un caso che dall’autunno di quell’anno Filippo e Giuseppe si trasferiscano a Milano, dove il 27 gennaio 1994 saranno arrestati. Al nord ci arrivano con in mano un nome: Giovanni Ienna, costruttore palermitano, condannato per mafia. «Lui – scrivono i giudici – sarebbe stato in contatto diretto con Berlusconi».
Sotto la Madonnina, da tempo, si anima un comitato d’affari che mischia mafia, impresa e politica. Qui la storia diventa inchiesta giudiziaria sui rapporti milanesi dei Graviano. Marcello Dell’Utri prima di tutto. Con il senatore azzurro, i fratelli, scrivono i giudici, «avevano contatti diretti o mediati da altre persone». Tanto che i Graviano sembrano disporre di corsie preferenziali per arrivare alla Fininvest. Come nel caso di Giuseppe D’Agostino salito al nord con il figlio futuro provinante al Milan (oggi Gaetano D’Agostino gioca nell’Udinese). Per questo viene sentito Dell’Utri. Dopodiché D’Agostino avrà in promessa, sempre dai Graviano, un posto di lavoro all’Euromercato, catena legata al gruppo Fininvest.
La latitanza dei fratelli finisce ai tavoli del ristorante Da Gigi il cacciatore. I carabinieri di Palermo arrivano a colpo sicuro. Il successo dell’operazione, però, si porta dietro qualche ombra. Non si sa, ad esempio, chi ha dato l’imbeccata giusta. A cena, quella sera, ci sono anche Giuseppe D’Agostino e Salvatore Spataro. Sentito D’Agostino racconterà del Milan e del figlio. Argomento che diventa fonte d’interrogatorio per Dell’Utri, il quale viene ascoltato il 10 febbraio. Eppure sulla sua agenda è già segnato il contenuto dell’interrogatorio. L’appunto termina con «Sirio maresciallo e Bicchio brigadiere». Particolare, questo, definito dai giudici «strano e inspiegabile».
L’ultimo paragrafo di questa storia potrebbe chiamarsi Vittorio Mangano. Sentito dai giudici Salvatore Spataro dirà: «Noi la sera, se non ci arrestavano, avevamo degli appuntamenti con amici loro». Chi siano questi amici ancora non si sa. Si sa, invece, che in quel periodo i rapporti Mangano-Dell’Utri si reggono grazie alla sponda di due imprenditori delle cooperative di pulizia, alcune con appalti in Publitalia. Dirà Giuseppe Brusca, all’epoca legato ai Graviano: «Mangano mi parlò anche di un suo amico imprenditore al Nord, titolare di una impresa di pulizia, che era in rapporti con il Berlusconi». Uno di questi, nel 1986, viene fermato davanti a un night di Milano assieme al titolare del ristorante Da Gigi il cacciatore. Ma anche questa è solo una coincidenza.
Fonte : Il Maniofesto del 12/12/2009 di Davide Milosa